Ultime recensioni

giovedì 3 settembre 2015

Io sono la montagna di Michele Lupo Recensione

Buon giovedì cari lettori, ancora una giornata dedicata ad una recensione di un romanzo breve molto particolare, scritto da Michele Lupo, intitolato Io sono la montagna. Una storia scritta in prima persona che ripercorre la vita, le esperienze e soprattutto il carattere del protagonista alle prese con un’articolata introspezione psicologica attraverso i ricordi e la memoria. Una vicenda cruda e reale che ci mette di fronte ad ampie consapevolezze.


Ditemi cosa ne pensate!



Titolo: Io sono la montagna
Autore: Michele Lupo
Editore: Epika
Pubblicazione:  2015
Genere: Romanzo breve
Pagine: 102
Prezzo: 6,99 Ebook - 10,20 Cartaceo 

Trama

Un uomo - la voce narrante - scrive una lettera a una donna. Tra il libero flusso dei pensieri emerge la storia di un meridionale emigrato in Germania negli anni Settanta o giù di lì, che poi imprime una svolta repentina (e più redditizia) alla sua vita qualche chilometro fuori dalla legalità. Trascorre anni in carcere, viene lasciato dalla moglie e dal figlio e trova lei, Vera, la destinataria della lettera, scesa a Milano dal suo paesello alpino per lui, che a più riprese cerca di redimerlo portandolo sulla via del Signore. Tra pagine grottesche e violente, con improvvisi picchi esilaranti, quest'uomo che finge di saperla lunga affida tutto il suo futuro e una curiosa ricerca di salvezza a una donna non meno tormentata di lui. Da un incontro del genere, poteva scaturire solo un'ilaro-tragedia nera e sorprendente.

Michele Lupo: nato a Buenos Aires. Insegno lettere in un istituto tecnico. Ho scritto il romanzo L’onda sulla pellicola (Besa), la raccolta di racconti I fuoriusciti (Stilo); l’ebook Il ritmo dell’architetto (lite editions).Collaboro con diverse riviste on line, fra cui satisfiction.me, flaneri.com.




“Non so se è un risarcimento quello che cerchiamo, Vera. Tutta questa storia te la racconto come se fosse una preghiera. Se riuscirai a leggerla, la preghiera sarà stata esaudita.”


Io sono la montagna è un romanzo breve caratterizzato da una narrazione d’impatto, essenzialmente frontale, brutale, proprio come lo scontro con un’auto che potrebbe essere quella della copertina. Una, (la), montagna che è il protagonista, così come lo chiamano e così come lui stesso ama definirsi, ponendo prima di tutto davanti ad ogni squallore ed esaltazione esistenziale, una confessione che ha il sapore della rabbia, l’amaro della ricerca della giustizia, e il fottersi delle speranze perse chissà quando e chissà dove. Ma il protagonista di questa storia ce l’ha mai avuta una speranza? 
Una di quelle corpose, pesanti, disarmanti, che ti portano a fare qualsiasi cosa pur di raggiungere la tua vittoria? Forse sì, quando era un migrante e dal Sud Italia partì per trovare una propria dimensione lavorativa e di vita nell’ambito del Nord. Forse allora c’era ancora qualcosa da salvare, ma adesso che il racconto è tutto rivolto al passato, con una terribile e sconcertante prima persona onnisciente che ti para davanti qualsiasi debolezza, falla della voce che parla, ti senti continuamente braccato dalla sua indomita forza, dalla sua furia, da quel rancore mai placato perché la ragione ha perso, con tacito assenso, la sua sacrosanta strada.

La storia di questo romanzo è una lunga lettera che il protagonista scrive ad una donna che si chiama Vera. Vera come la confessione, vera come la verità, vera come la redenzione, come quella benedizione che mai arriverà. Vera come lo è la vita, sporca e malandata, cozzata e attanagliata, vera come gli sbagli che non ti scrolli di dosso nemmeno con l’acido di un’esistenza passata tra la galera e l’intolleranza, tra la violenza e i pugni in faccia.

“Tu Vera sei una cara donna ma le montagne ci vuole rispetto prima di affrontarle. Questo dovresti saperlo.”

E il protagonista è una montagna insormontabile con tutte quelle parole, messe lì, in fila, a volte in modo provvisorio, altre pacato, altre ancora disarticolato, perché lui lo ammette, non sa scrivere, non è acculturato ma ci sta provando, le sta parlando. Ma Vera chi è? Un simbolo, un nome, un senso? Una donna che a suo tempo voleva salvarlo, proteggerlo, custodirlo con la parola di Dio, una fanatica della religione che ritroviamo in un letto di ospedale, pestata dall’animale che la montagna sa essere quando la rabbia supera il raziocinio e non lascia via di scampo, per nessuno.

“Come un uragano che arriva e fa volare il mondo per aria. Hai visto i miei occhi avvelenati dalla rabbia e non te li sei mai scordati, hai detto.”

Ma il protagonista non è soltanto questo. E’ un uomo che prima di tutto racconta il suo essere attraverso le sue disastrate esperienze di vita, prima fra tutte l’attività di trasferire i migranti che giungono in Italia, conducendoli in Germania. Una storia la sua, dove c’è spazio anche per il matrimonio e per un figlio che forse non è suo. Senza mai accennare all’amore o a una qualsiasi forma di sentimento, il suo racconto, se in alcuni momenti può anche ingannarti e farti credere che lui sia lì, davanti a te che potresti essere la Vera della storia, che non è altro che se stesso o forse persino Dio, se esistesse davvero, con un’ansia cocente di pentirsi e di salvarsi, in realtà ciò che si legge tra le righe è solo tanta consapevolezza e certezza di essere ancora uguale, ancora un inguaribile peccatore che non ha alcuna voglia di smettere di sbagliare.

E’ un uomo forte, forse troppo, uno che usa le mani, che non sembra sempre ragionare molto bene, che si perde, che ha alti e bassi, che segue un percorso pieno di discrepanze che non riescono a riportarlo indietro sano e salvo.

La narrazione procede spedita, salta scorrevole e canterina, come se alla base ci fosse una lunga canzone che intona parole e suoni sempre sulla stessa frequenza, come una litania sommessa, una confessione bassa e roca che però tocca picchi di altezzosa consapevolezza, come un grido animalesco nel mezzo di una foresta.

Vera è lo specchio del protagonista e continuerà ad esserlo fino alla fine, fino a quando si trascineranno segreti e scoperte, incarnando costantemente quella vergogna che per la società dovrebbe provare ma alla quale anche lui stesso stenta a credere.

“E’ sempre lei che ci fotte, la paura”

La paura è l’elemento predominante, il continuo riferimento ad un Dio assente o persino distratto, ad una società la cui giustizia e recupero della moralità è rappresentata dal carcere, con il quale il protagonista sente di aver toccato il fondo. Ma di cosa?

“Il carcere a un certo punto diventò un’eventualità da prendere in considerazione, ma non ci credevo veramente. Se ci pensi davvero, finisci per meritartelo.”

Le riflessioni riguardanti gli emigrati, il concetto profondo e anche un po’ filosofico che sta alla base della scelta di imbarcarsi e allontanarsi dalle loro terre per che cosa?

“Che cosa vogliono questi, dove pensano di andare. Vogliono allontanare la morte, dico io.”

Tutti pensano che non hanno niente da perdere, per questo rischiano così la loro vita, invece per il protagonista la verità è l’esatto contrario. E’ perché hanno qualcosa da conservare che mettono in gioco tutto pur di avere ancora dentro la speranza di un miglioramento.

La scrittura è diretta, scene crude ed essenziali, descrizioni prive di fronzoli, ridotte all’osso. Sentimenti pochi ed emozioni primordiali. La narrazione sembra quasi una partita a scacchi senza pedine, in cui il bianco e il nero sono lui e la sua Vera che si alternano come se lei fosse un fantasma con una corposa presenza invisibile in grado di segnare quella confessione che senza di lei non avrebbe senso di esistere.

Le parole ti conducono ad un finale che smette di essere confessione, di essere preghiera semmai lo è stata, per diventare quasi una minaccia. Una minaccia verso Vera, verso Dio che dovrebbe essere più indulgente, verso un se stesso provocatorio ed equivocato che ha giocato continuamente saltellando sul confine tra ciò che giusto e sbagliato, tra la redenzione e il desiderio di riscatto. Un risarcimento che porta i conti di una vita allo sbando, di una carriera amorale, di un amore pestato, di un odio ancora malcelato.

Lo stile dell’autore permette alla storia di non cedere, di non frantumarsi, di mantenere sempre alto il tono dell’interesse, fino allo sconcertante epilogo. Ma in effetti tutta la vicenda è sconcertante, ti fa riflettere e consapevolizzare. Tutto un oscuro momento di introspezione che tocca le corde più incontrollabili dell’anima. E’ come il vomito, come il corpo sviscerato di un cadavere, è tutto messo lì, fuori, davanti ai tuoi occhi straniti ed inquieti che non sanno più dove guardare. Una consapevolezza sua, tua, nostra, difficile da digerire, per questo in grado di restare a galla, senza affondare, proprio come lui: la montagna.

“Sei anni in cella bastano e avanzano per sapere che non mi salverò mai, Vera.”




2 commenti:

  1. Intanto complimenti per la descriziome...la trama è molto interessante, non avevo mai sentito parlare di questo scrittore, sarà il mio prossimo acquisto!

    RispondiElimina